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I MERCATI E I MERCATINI SICILIANI

PROFUMI E SAPORI DELLA MEMORIA
Pino Caruso
fotografie di Melo Minnella

Una citta può essere visitata, desiderata, ammirata, sognata, persino detestata; Palermo, in più, può essere mangiata.

Sono nato alla Vucciria, tra un vociare di pescivendoli, caldumai, carnezzieri, rosticcieri, caldarrostai, fruttivendoli e droghieri. Nascendo, urlai anch’io. Per annunciarmi. Ma l’urlo, in quel frastuono si sperse. Mi acquietai. E, più che le orecchie, presto assuefatte, misi in funzione il naso. Un afflusso di odori lo invase, lo stuzzicò, lo carezzò, lo nauseò. Non me ne stupii. Mi sembrava che quegli effluvi la vita li ayesse di suo. Erano il sapore naturale dell’aria.

Mesi dopo ci trasferimmo in via Materassai, al numero 44; una strada confinante, non lunga, per niente diritta e così angusta che il sole vi penetrava giusto a mezzogiorno, poi si ritraeva su per i muri; alle tre era gia sgusciato via. Del cielo si scorgeva appena una striscia, come adagiata sui tetti; i balconi, posti di fronte, si guardavano negli occhi, cosi le botteghe. Papà ne aveva aperta una di generi per sarti, al numero 42: “Vincenzo Caruso — Mercerie e filati”.

Fu allora che prese a comportarsi da emigrante. Parlava di quella nostra casa alla Vucciria come di una patria perduta. Ma questa è un’altra storia. Crescevo. La Vucciria ora la percepivo dal rumore lontano, quasi di mare in burrasca, dagli odori che fluttuavano nell’ aria e dal transito di lunghi carretti che trasportavano alle pescherie tonni ancora sanguinanti. Cominciai a praticarla, prima con mia madre poi da solo, incaricato di comprare questo e quello, spesso semplicemente il pane o la pasta; dove comunque non ci fosse da scegliere e venisse meno la possibilità di essere imbrogliati. Le botteghe straripavano dall’interno verso fuori; i loro banconi ostruivano la strada fin quasi a ridurla a un corridoio; su quelli di marmo, il pesce (triglie, sarde, alici, sgombri, spigole, razze, merluzzi, aguglie, aricciole, rombi, eccetera) veniva annaffiato di continuo, a renderlo come uscito allora dal mare e mostrato sul palmo della mano che, tremolando ad arte, gli trasferiva un residuo di vitalità. In bocca ai tonni, distesi interi con i fianchi squarciati dagli arpioni, una foglia di lattuga (o un pomodoro) ne sottolineava la freschezza.

Dai pesci grandi e medi si passava a quelli piccoli e piccolissimi: cicirieddu e nunnata, appena nati questi ultimi — se ne fanno guastelle (focacce) impastandoli con uovo e farina. Ai polpi (ancora vivi e frementi al minimo tocco) e ai frutti di mare: gamberi, calamari, totani, cozze, ostriche, aragoste, ricci, secondo la pesca e la stagione.

Esposta appesa, invece, la carne; ma non a rocchi, bensì a quarti, sia di bue sia di vitello. Gli agnelli e i maiali, lasciati penzolare nella loro interezza ai ganci, esibivano alla gola lacerazioni da coltello e tutti gocciolavano sangue, segno di una macellazione recente. Fu il mio primo incontro con la morte (ma anche questa è un’altra storia). Mi soffermavo più volentieri davanti alle verdure, alle granaglie, agli ortaggi, cotti e crudi: le fave, le patate, la scarola, i cavoli, i cardi, il mais, la borragine, i pomodori, i finocchi, le zucche centenarie, i cavolfiori, gli sparacelli, le melenzane; e i carciofi e i carciofini, da consumarsi (bolliti) foglia a foglia, pizzicati nel sale. Quindi, le zucchine: corte, da pastasciutta; lunghe, da minestra, le cui foglie, chiamate “tenerume”, si cuociono a parte nell’ acqua, che diventa di smeraldo cristallino. Un brodo delicatissimo, rinfrescante. E le olive! una sull’altra, una accanto all’altra, s’inerpicavano in piramidi di lucenti drupe verde pallido o verde cupo che, pur svuotandosi pericolosamente da un lato, a causa delle olive via via vendute, miracolosamente reggevano sino all’inverosimile. In composizione anche la frutta; allineata, squadrata e sovrapposta: prugne, sbergie, arance, limoni, mandarini, pesche duracine, pesche noci, pesche tabacchiere, albicocche, ciliegie, amarene, fichidindia, fichi, melograni, cachi, pere spadone, pere butiro, piriddi (pere piccolissime) e mele, bianche e rosse, lustrate nel corso della notte con panni di lana. Le varie uve, bionde e nere: la “inzòlia”, lo zibibbo di Pantelleria, le “lacrime della Madonna”.

Da annusare, più che da guardare, erano il basilico, il prezzemolo, il timo, la salvia, il sedano, l’aglio, la cipolla, l’uva passa (detta anche sultanina), i capperi, il peperoncino, l’origano (seccato al sole, da sbriciolare sulle insalate) e le spezie: il pistacchio, la scorzonera, il pepe nero, la cannella, lo zafferano, la noce moscata, i chiodi di garofano... In quanto ad odori, di maggio — il mese delle tonnare e della Beata Vergine del Rosario - ne spargevano per le vie i venditori di gelsomino e di citronella. Petalo su petalo, il gelsomino rivestiva un cuscinetto oblungo e cespuglioso di non so che vegetale secco infilzato da una cannuccia. La citronella gli si appaiava a rametti. Conversando o passeggiando, gelsomino e citronella si accostavano al naso e se ne aspirava voluttuosamente il profumo.

Ma era il pane, la sua fragranza, che mi attirava (affamato) sulle soglie dei panifici. Lo impastavano in retrobotteghe visibili agli avventori, lo manipolavano in forme diverse, lo cospargevano di grani di sesamo (giuggiolena), lo sfornavano fumante e odoroso e lo spalmavano, ancora caldo, di un liquido che lo rendeva lucido come ebano verniciato; poi lo dispiegavano negli scaffali a gerla dietro il banco di vendita, tipo per tipo: mafalde, torcigliati, toscani, spagnoli, signorine, capricciosi, millefoglie, ghiribizzi, filoni, filoncini, sfilatini, pagnotte, pagnottelle, rosette, panciotte... Più di una al giorno le sfornate: il palermitano disdegna il pane freddo e nessun fornaio osa proporglielo. Oggi, come ieri, commesse gentili, in grembiuli candidi o celestini, lo pesano e l’avvolgono in fogli di carta velina color rosa sfiorita e, incrociandovi sopra uno spago sottile, ne fanno graziosi pacchetti. Si paga alla cassa; venditrici e garzoni non maneggiano denaro. Una cautela igienica, un modo forse antico di rispettare un alimento che, in molti casi, doveva anche fungere da companatico. Personalmente, il pane, posso mangiarlo senza il companatico, ma non potrei mangiare nessun companatico senza il pane.

Non meno stuzzicanti si presentano le rosticcerie. Vi si trova cibo pronto per i poveri e per chi ne ha voglia: le panelle (farina di ceci impastata, spianata e fritta), i cazzilli (così detti per ragioni plastiche evidenti; sono crocchette di patate con prezzemolo), le “quaglie” (quagghi), che non sono uccelli ma melanzane intere, sezionate perpendicolarmente, lasciando intatto il nucleo centrale superiore; si consumano fritte. Come i fieddi, melanzane ma a fette (da gustarsi sulla pasta o con il pane), i broccoli “alla pastella”; le arancine di con carne o con formaggio; lo sfincione (una pizza più spessa e più morbida); i timballi di riso, di pasta o di verdura; l “raschiature” (residui crudi di panelle e cazzilli, fritti a loro volta); il baccalà (o stoccafisso); pesci e pesciolini cotti in vario modo. Il fast food possiamo dire di averlo inventato noi.

Pane e panelle è un’idea tutta palermitana, che, andando verso Messina, si ferma a Cefalù, e, verso Trapani, a Sciacca. Lo divorano (nonostante la concorrenza degli hamburger) gli scolari nell’ora di ricreazione, i soldati in libera uscita, i negozianti, gli impiegati, i manovali, gli artigiani nelle pause di lavoro; i sagrestani tra una funzione e l’altra, i becchini dopo una sepoltura, i tifosi alle partite, i turisti all’ombra dei monumenti, gli emigranti al ritorno in patria, sbarcando; gli intellettuali e i signori, per sfizio. Sicchè panellari ambulanti si dislocano davanti alle scuole, agli uffici, alle chiese, ai cimiteri, alle stazioni, ai musei, ai grandi magazzini e, la domenica, davanti albo stadio. Li, le panelle, diventano “il sapore del gol”. Ora, a Roma, le sogno la notte. Le vagheggio di giorno, come sogno e vagheggio le brioches con la panna alla vaniglia, i cannoli con la crema di ricotta, la cassata (che non è soltanto un gelato, ma anche una torta di pan di Spagna ben guarnita di canditi e pasta di mandorla), i biscotti di San Martino, la cubarda, la pietrafendola (termini intraducibili: l’uguale non è rintracciabile altrove), la frutta di pasta reale (detta “martorana”) e mille altre ghiottonerie che non cito: sarebbe un elenco interminabile. Aggiungo soltanto i dolci delle feste che una volta si smerciavano esclusivamente nelle ricorrenze alle quali erano abbinati e quelli delle stagioni— ciascuna i suoi — che, essendo legati ai prodotti della terra, avevano vita breve. I cannoli, infatti, li trovavi soltanto al momento in cui la ricotta era al meglio. E le sfincie di San Giuseppe, il 19 marzo. Adesso i cannoli li trovi sempre e le sfincie di San Giuseppe appaiono nelle vetrine anche quando si festeggia Sant’Antonio.

Dolci che sono dolci per sublimazione; di una dolcezza piena, intensa, barocca, a volte delirante e, tuttavia, non stucchevole. Una misura irripetibile altrove.

Capita fuori di Sicilia che pasticcerie o dolcerie si dichiarino “siciliane”. Alcune millantano: vi si abborracciano pastrocchi colorati, dolciastri più che dolci, lontani, seppur somiglianti nelle forme, dalle golosità confezionate dai nostri artigiani. Una diffamazione. A Palermo, come in altri luoghi della Sicilia, già all’alba, le vetrine dei bar espongono cumuli di delizie colorate: dai cartocci di vivida crema, agli infornati croccanti; dai canditi, con tinte dal celestino all’ocra, alla frutta di pasta reale; i pozzetti frigoriferi traboccano di gelato al pistacchio, al melone, al gelsomino, servito da commessi prestidigitatori che, manovrando con svelte torsioni del polso una paletta, travasano la quantità richiesta nei coni, mentre nelle centrifughe monta la panna per le brioches e i coni gelato. Le brioches con la panna! Uno struggimento per noi ragazzi del dopoguerra, una libidine da accoppiamento sessuale e ne costituivano anche l’unica alternativa possibile, o meglio: una di due; 1’ altra essendo i cannoli, che una combinazione di tipo sessuale, in qualche modo, la configurano: accoppia, infatti, il cannolo la dolcezza femminile della crema con la ruvidezza maschile della scorza. Un amplesso. I dolci accompagnano l’esistenza del siciliano, forse a compenso di amarezze e disinganni e ne adornano, per così dire, anche la morte. A novembre, nel giorno dei defunti, in tutte le case si apparecchia un tavolo, o la credenza, con una o più statuine di zucchero: le pupaccene, raffiguranti, di volta in volta, bersaglieri all’assalto, paladini di Francia (Orlando, Rinaldo, Angelica, il mago Merlino, il perfido Ferragù), principi azzurri, fate turchine, emiri, sceicchi, Biancaneve e i sette nani, il gatto con gli stivali, finanche Giuseppe Garibaldi, in piedi o a cavallo, con la camicia rossa e il poncho sulle spalle. Intorno: biscotti, pasticcini, fichi appassiti, noci, mandorle, datteri e, infine, le “ossa dei morti” (tibie di pasta reale) e le castagne secche (dette cruzziteddi, piccoli teschi) che, per la loro tonalità giallastra e la forma a cranio, un teschio lo raffigurano a meraviglia. Ghiottonerie macabre, in vendita, queste ultime, ma abituano all’idea della morte; la rendono familiare, aprono la mente a una sorta di sentimento cosmico dell’esistenza.

Fu proprio a novembre che scoprì le caldarroste, ma ero tanto piccolo! Coincise con la prima volta che i miei genitori azzardarono di mandarmi, per il vino, dall’oste sotto casa. Era piovuto. Scendendo in strada, m’accorsi di un fumo bianco e odoroso che un vento leggero trasportava dalla Vucciria. La sera, quel mercato si vestiva a festa, s’illuminava a giorno, ne intravedevo il chiarore; un’atmosfera che avrebbe dovuto rallegrami. Ma quel fumo viaggiava a folate sempre più gonfie e io me ne spaventai come di un incendio. Tornando a casa, tacqui debbo spavento, ma mi si leggeva in faccia. Chiesi soltanto il perché di quel fumo. Papa andò a comprami le caldarroste: le arrostiscono in tegami incastrati nell’imboccatura superiore di una fornacella a cilindro, alta quanto una persona e, sul fuoco che arde in basso, lanciano da una finestrella laterale, pugni di sale; così che il fumo salato le imbianca, le insaporisce. Una raffinatezza. Da poveri, ma una raffinatezza.

In quel tempo, gli affari a papà andavano male, ed ero ormai un ragazzo quando gli andarono peggio. Ci soccorse, allora, proprio la cucina mediterranea. S’apparecchiava con pasta (a condirla bastava il pane raffermo tostato e grattugiato) e pezzame: tocchetti o brandelli di formaggi e di affettati, residui di pesature consistenti, rimasugli di tagli più corposi. Se ne comprava a buon mercato un abbondante cartoccio.

E c’erano (e ci sono), freschi e secchi, i legumi; da farne minestre gustose (quelle con le fave secche, a Catania, le chiamano macco), da mangiare anche fredde.

Ma voglio raccontarvi della pasta con le sarde e di quella con le sarde a mare. La prima si cucina con uva passa, pinoli, finocchino di montagna (gli ingredienti base) e sarde. La seconda con uva passa, pinoli, finocchino di montagna e... niente sarde, perché sono rimaste a mare — come dire non si è potuto comprarne. Ora, se si considera che le sarde sono sempre state il pesce dei poveri, c’é da pensare che per lasciarle, se non a mare, sui banchi delle pescherie, si doveva essere così poveri, ma così poveri che più poveri era quasi impossibile trovarne.

Dimenticavo, tra i gelati (e chissà quanto altro ho dimenticato), la charlotte, nome francese, ma in Francia non sanno cosa sia. E’ un modo di servire il gelato tra due biscotti. E viene confezionata da una macchinetta con un piccolo manico, in cima alla quale un alloggiamento a parallelepipedo rettangolo permette di inserire un biscotto di misura adeguata, su questo si mette il gelato e, sopra a tutto, un altro biscotto. Spingendo dal basso, un bastoncino di metallo scorrevole, sistemato all’interno del manico, fa uscire la charlotte.

Mi fermo qui. Oggi ho gia mangiato abbastanza. Il cibo, a saperlo leggere, é un libro di memorie e, se ci viene dalla terra in cui siamo nati, è anche un pezzo della nostra infanzia e della nostra storia.

INTRODUZIONE

AL DI LA' DEI FIUMI: I MERCATI DI BALLARO' E DEL CAPO
di Marcella Croce

RACCONTARE PALERMO
di Cinzia Scafiddi

PROFUMI E SAPORI DELLA MEMORIA
di Pino Caruso

I QUARTIERI-MERCATO SICILIANI
di Annamaria Amitrano Savarese

LA "MARINA" DI MAZARA DEL VALLO
di Lorenzo Greco

LA CUCINA AFRODISIACA CATANESE. GLI INGREDIENTI E I MERCATI POPOLARI
di Pino Correnti

ELENCO DEI MERCATI E DEI MERCATINI IN SICILIA

Testi e Foto tratti da
"La Sicilia Ricercata" n° 8
MERCATI

IN LIBRERIA

Articoli tratti da "La Sicilia Ricercata" - N° 8 "Mercati"


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