UN REMOTO E UN RECENTE PRESEPE  
                    Vincenzo Consolo  
                     
                    
                       
                          
                          Sacra 
                          rappresentazione 
                          San Michele di Ganzaria (CT) | 
                       
                     
                    Ecce Dominus veniet, 
                      et erit  
                      in die illa lux magna ...  
                      - Prope est iam dominus ...  
                      - Veni Domine, et noli tardare...  
                    Voci 
                      bianche di fanciulli e voci scure d'adolescenti, sopra le 
                      note dell'organo, là dalla cantoria come dall'alto del cielo, 
                      precipitavano tra le navate, cadevano sopra i fedeli. I 
                      cherichetti, in tunica rossa e cotta bianca, si muovevano 
                      sul presbiterio a passo di danza, facevano oscillare il 
                      turibolo, spandevano fumi azzurri d'incenso. Tuonava con 
                      voce grave l'officiante là all'altare, sotto il drappo che 
                      nascondeva il presepe, sotto la faccia di saraceno del santo 
                      eremita che troneggiava dentro il catino dell'abside: "Praecursor 
                      pro nobis ingreditur ... Ipse est Rex iustitiae, cuius generatio 
                      non habet finem ... "  
                    Sera 
                      dopo sera la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, 
                      luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la 
                      novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione 
                      del gioioso dramma, verso il Natale, l'apertura del sipario, 
                      l'apparizione del Bambino, il fulgore d'ogni luce, il dispiegamento 
                      d'ogni canto, il concerto delle campane.  
                     Diciamo 
                      d'un remoto Natale in un paese ai piedi dei Nebrodi, nella 
                      piana fitta d'ulivi e d'aranci, il mare di fronte con le 
                      Eolie fantasmatiche all'orizzonte e le boscose colline alle 
                      spalle, l'immenso Etna in fondo di nevi e caligini.  
                    C'era 
                      stata, già prima, tutta l'ansia, c'era stato il travaglio 
                      per preparare in casa il presepe. La ricerca di sugheri, 
                      legni, pietre, vetri, stagnola, cartoni, tutta l'ossatura 
                      del favoloso teatro, l'apparato di monti, valli, anfratti, 
                      fiumare, gole, grotte, la primigenia, la nuda creazione 
                      di un ritaglio del mondo.  
                    E 
                      quindi, sopra il deserto, i segni dell'uomo, recinti d'ovili, 
                      casupole sparse, villaggi, masseria, casali, mulini, e la 
                      città sullo sfondo, alta incombente, la fortezza con mura 
                      merlate di un potere nefasto, di un re spietato che avrebbe 
                      introdotto nel quadro serafico la lama del male, la tragedia 
                      d'una Strage. La pelle poi sullo scabro apparato, il tenero 
                      muschio, smeraldo, raccolto lungo gli argini dei torrenti, 
                      sopra gli orli di gèbbie e lo spino pungente che diveniva 
                      nimbo sopra la Grotta, su cui si sarebbe adagiata, a fiocchi, 
                      la neve, avrebbero volteggiato in Gloria gli angeli. E prati, 
                      siepi, alberi - ginestre, fichidindia, corbezzoli, ulivi, 
                      palme -, cascate d'acqua, laghi d'argento. Nel notturno 
                      cielo di carta, stelle infinite, vie lattee, tenebrosi sprofondi 
                      e vividi sprazzi, l'arco della cometa che sovrasta e attraversa 
                      tutto il teatro. Il mondo animato infine, animali, uomini, 
                      divine presenze.  
                     I 
                      pastori. Giungevano da santo Stefano di Camastra, 
                      il paese vicino dei "cretari", sortivano dalle fornaci dei 
                      Gerbino, dei Frantatonio, in cui si cuocevano giare alte 
                      e panciute come badesse (la giara di don Lolò dell'omonima 
                      commedia di Pirandello), scifi, brocche, piatti, mafarate, 
                      càntari, lucerne ... Tutto vasellame d'uso, ma il solo oggetto 
                      di "delizia", d'ornamento che gli "stazzonari" si concedevano 
                      era la mastrangela, la madre degli angeli, un'ottocentesca 
                      damina bianca con sulle spalle le ali spiegate. Ed erano 
                      di delizia anche i pastori a Natale, per cui erano delegati 
                      i "carusi", gli apprendisti. Che modellavano con mano grande, 
                      maldestra, come quella del ragazzo "aspro e vorace" di Saba, 
                      ma che spalmavano i pastori con colori soavi, rosa, pistacchio, 
                      celeste, giallo, i colori dei "pupi" di zucchero, del marzapane, 
                      dei gelati.  
                    Si 
                      disponevano sul presepe prima i pastori dei margini, delle 
                      baide ignare, quiete, non ancora investite e sconvolte dell'improvvisa 
                      Novella: la vecchia che fila, il contadino che zappa, il 
                      garzone tra le pecore al pascolo, il mugnaio, il maniscalco, 
                      il pescatore, il dormiente, l'infreddolito davanti al braciere 
                      ...  
                    Al 
                      centro poi la luce e il moto, la danza degli angeli sospesi, 
                      il procedere in terra verso il luogo del prodigio, del richiamo, 
                      il convergere all Grotta del miracolo: gli zampognari, gli 
                      offerenti, lo "spaventato", i Magi e, sulla soglia dell'antro, 
                      in piena luce, come sorti dal profondo, dal buio, l'asino, 
                      il bue, i due attori supremi, Giuseppe e Maria, chini, adoranti 
                      accanto alla mangiatoia ancora vacante. Un tempo lungo, 
                      di nove giorni, doveva trascorrere perché si concludesse 
                      il trionfo, con l'apparizione del bambino rosato, questo 
                      spettacolo.  
                    In 
                      questo tempo, dopo il rito liturgico, c'era la notte l'attesa 
                      di un'altra Novena, quella cantata sotto il balcone dai 
                      ciaramiddari, cantata dal cieco:  
                    Quannu Cesari jittavu lu gran  
                      bannu 'mpiriusu.  
                      'nta la piazza si truvava San  
                      Giuseppi gluriusu.  
                    questo il Natale di un paese ai piedi dei 
                      Nebrodi, il favoloso presepe della remota innocenza. 
                      Tanti 
                      altri presepi poi vedemmo, con occhi ormai di disincanto, 
                      dai più preziosi del museo di Trapani ai popolari della 
                      Casa di Uccello. Ma ritrovammo per caso l'incanto, già carichi 
                      d'anni e malizia, grazie a un presepe di Angela Tripi, questa 
                      erede incantata di Giovanni Matera.  
                    Avvenne 
                      a Parigi, sulla piazza del Municipio, in un padiglione dove 
                      ogni anno s'appronta il presepe d'un paese diverso.  
                    La 
                      crèche de Sicile era un fantastico assemblaggio dei 
                      monumenti, dei luoghi più suggestivi dell'Isola. C'erano 
                      le chiese e i mercati di Palermo, i mosaici di Monreale, 
                      i templi greci di Segesta e di Agrigento, l'Etna fumante 
                      e il mare di Aci Trezza ... E i pastori, loro d'argilla 
                      e di stoffa, in umili panni o sfarzosi, ripetevano fisionomie, 
                      gesti, azioni, mobile com'era il presepe sonoro, di quel 
                      crogiolo di razze e di voci che è ancora la Sicilia. 
                    "Ma 
                      dove siamo, in Oriente o in Occidente, siamo in Arabia o 
                      in terra cristiana? Cos'è questa confusione di monumenti, 
                      questa babele di epoche, lingue?" declamava la voce narrante. 
                      Eravamo in Sicilia, e la Natività era posta sotto le vele 
                      dell'abside, tra le colonne di una chiesa barocca diruta. 
                       
                    Concludeva 
                      la voce narrante: "Ecco il prodigio: è il riso del Bambino 
                      di Betlemme, dei bambini di Palermo e d'ogni luogo del mondo. 
                      E' l'amore, la pace, il messaggio antico e sempre nuovo 
                      del Natale". 
                    Vincenzo Consolo 
                    ( 
                      TORNA 
                      ALL'INDICE DEGLI ARTICOLI ) 
                     
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